venerdì 17 luglio 2020

Personaggi Illustri di Majerà: Francesco Antonio Vanni

Da qualche giorno, entrando nella nostra Chiesa Madre, è possibile imbattersi in due lapidi marmoree da poco esposte ai fedeli dal parroco Don Ernesto De Marco.
Tale circostanza, per alcuni forse non rilevante, per me rappresenta uno stimolo a raccontare la storia di “questa lapide”.
Si, una lapide, in quanto le due metà in realtà compongono un unico epitaffio funebre. Ma veniamo per gradi rispondendo a due quesiti fondamentali, ovvero: a chi apparteneva questa lapide e dove era situata.
La lapide di cui ci stiamo interessando apparteneva alla famiglia Vanni e in particolare ai fratelli Fulgenzio e Francesco Antonio. La famiglia Vanni, nel 1700, era una delle famiglie più potenti, ricche e prestigiose di Maierà. La lapide, quasi illeggibile oggi, racconta un po’ la storia della chiesa e di questi due fratelli, innamorati della loro terra natia e che desideravano essere tumulati nella chiesa Madre.
(Alla base della tela)
Francesco Antonio e Fulgenzio Vanni
fratelli amatissimi
fecero curare. 1754















La lapide, difatti, prima dell’ultimo restauro, era ancora nella sua posizione originale, indicativamente, osservando frontalmente la navata della Chiesa, alla nostra destra fra i primi due altari laterali. Vicino alla lapide , fissata alla parete, una tela raffigurante la discesa dello Spirito Santo su Maria del 1754 donata alla Chiesa Madre dai fratelli Vanni. 
Dopo l’ultimo restauro la lapide è stata tolta per fare spazio alla pavimentazione odierna (da storico l’avrei lasciata dov’era) e conservata fino ad oggi e presumibilmente in attesa di una sistemazione più consona all’importanza dell’opera stessa.
L’incisione latina recita così:

A DIO OTTIMO MASSIMO.
NELL’ANNO 1755 DELL’ERA CRISTIANA,
ESSENDO STATA LA CHIESA RESTITUITA IN FORMA PIU’ ELEGANTE E MESSO L’ALTARE MAGGIORE AL POSTO DELL’INGRESSO, (CHIESA) CHE ERA STATA ERETTA CON LA COMPIACENZA DI RE CARLO I, (CHE) ALFONSO DI LORIA AVEVA RINNOVATO NELL’ANNO 1534,
GLI AMATISSIMI FRATELLI FRANCESCO ANTONIO E FULGENZIO VANNI QUI HANNO TRASFERITO, AVENDONE AVUTA FACOLTA’ DAL VESCOVO BRESCIA, L’ALTARE DEDICATO ALLO SPIRITO SANTO E JUSPADRONATO ASSEGNATO ALLA FAMIGLIA, INOLTRE VI HANNO COSTRUITO UN LOCULO PER LE OSSA LORO E DEI DISCENDENTI.

In realtà tra i due fratelli solo Fulgenzio, forse il meno noto dei due, verrà sepolto lì così come desiderato. Francesco Antonio avrà una sorte diversa.
Come sappiamo Francesco Antonio Vanni è stato il primo storico di Maierà; tutto ciò che conosciamo della storia del nostro paese è solo grazie a lui e alle sue “Memorie della Terra di Majerà”, scritte intorno al 1750 e ritrovate nell’archivio storico di Cosenza all’interno dell’opera “Selva Calabra” dello storico Diamantese Leopoldo Pagano, che avendo ben compreso l’importanza del lavoro del Vanni lo preservò da una più che certa scomparsa. Lo stesso prof. Orazio Campagna nello scrivere il suo libro “Storia di Majerà” del 1985 ha attinto, anzi, in molte parti ha riportato interamente quanto scritto dal Vanni, aggiungendo nel suo lavoro i capitoli relativi al dialetto, alle tradizioni e ulteriori informazioni più recenti. Dal Vanni si discosta solo per un elemento, ovvero l’etimologia del nome. Secondo il Campagna infatti Maierà deriverebbe dall’ebraico M’ara (grotta), mentre il Vanni attribuiva l’origine del nome al greco Makhairas (coltellaio). Personalmente, e non è la prima volta che lo preciso, concordo con il Vanni per una serie di motivi che non sto qui a precisare.
Ritornando al titolo di questo articolo, soffermiamoci un po’ sulla figura di questo nostro illustre compaesano.
Francesco Antonio nacque a Majerà il 17 aprile 1698 da Biagio Vanni e Geronima Forte. Nel 1705, all’età di 7 anni, vestì l’abito talare e nel 1708 ricevette la prima tonsura. Dal 1712 al 1717 studiò a Mormanno e nel 1720 si trasferisce a Scalea, dove svolse l’attività di precettore, insegnante, e economo del principe Francesco Maria Spinelli.
Nel 1724 va a studiare a Salerno per poi ritornare in Calabria ed esercitare la sua professione, continuandola dal 1734 a Napoli, dove fu medico di molte famiglie benestanti e particolarmente dei principi Spinelli di Scalea. Oltre a scrivere le Memorie di Majerà scrisse anche la storia di Scalea e la genealogia dei suoi baroni, con la descrizione dell’albero genealogico della famiglia Spinelli (purtroppo introvabili).
Morì il 2 giugno 1755 e fu sepolto nella chiesa di San Giovanni a Teduccio (quartiere di Napoli). Il suo corpo mortale, dunque, non tornò mai nella sua patria, la terra tanto amata della quale ha narrato la storia fin dai suoi albori.

Pablito Sandolo

martedì 2 giugno 2020

3 Giugno: Giornata del Migrante Italiano in Argentina

Maierà: tanto lontana ma così vicina.

L'uomo, per natura, è un essere portato allo spostamento; da sempre gli esseri umani si sono spostati su tutto il globo terrestre, dapprima a piedi e poi usando i successivi mezzi di locomozine, fino ad arrivare ad oggi, un tempo dove gli spostamenti sono favoriti dai velocissimi mezzi di trasporto. L'uomo, dunque, è da sempre un migrante, per vari motivi si è spostato da un luogo ad un altro, lo ha fatto per lavoro, per affetto, perché in fuga dalla guerra. Ecco perché oggi, in questa giornata particolare per gli emigranti Italiani in Argentina, ricordiamo coloro che hanno lasciato Maierà per inseguire un sogno, il loro sogno, chiamato America. Furono in molti, tra gli anni '20 e '30 del secolo scorso a lasciare la propria terra natale, tante le storie, i racconti, le paure e le speranze di uomini e donne di Maierà che si riscoprirono cittadini in terra straniera. Storie di uomini e donne comuni che pur lontani da Maierà hanno saputo tramandare ai loro figli e nipoti il loro amore per la loro terra natia, quella terra che li ha visti muovere i primi passi prima di salutarli, a volte per sempre, e donarli al mondo. 
In questo articolo vogliamo ricordare tutte queste persone, e lo faremo grazie ai racconti di alcuni figli di Maierà, che pur lontani, amano la nostra terra e sognano un giorno di vederla o rivederla. Il nostro "Gracias" va a Paulina Sacovechi, Liliana Pignataro e Mabel Gardiol Sollazzo. 
Prima di lasciarvi ai loro racconti, tuttavia,  un personale saluto va al mio bisnonno Battista Magurno, che nel 1921 lasciò Maierà, perché minacciato dalla "mafia" locale per imbarcarsi verso il Venezuela, che la terra ti sia stata lieve uvunque tu sia. 

Storia di Ma. Paulina Sacovechi (Famiglia Magurno- Casella)

Saverio Magurno, Maria Teresa Casella, Eugenio,
Maria Rosaria e Maria Lisina Magurno
Nel 1928 i miei bisnonni Saverio Magurno e sua moglie Maria Teresa Casella con i loro tre figli, Eugenio, Maria Rosaria e María Lisina Magurno, partono da Maierà per Rosario, Argentina. Arrivano prima al porto di Buenos Aires sulla nave Martha Washington che parte dal porto di Napoli insieme a molti altri connazionali. A Rosario furono in grado di progredire economicamente e acquistare terreni e costruire le loro case. Hanno imparato i mestieri e studiato la lingua spagnola. Il popolo argentino li ha accolti apertamente perché è un paese che ha accettato tutti i tipi di immigrati da tutto il mondo. Molti sono partiti per l'Argentina per fuggire da persecuzioni, guerre o fame e in cerca di un futuro migliore per le loro famiglie. I miei bisnonni e nonni erano molto grati per tutto ciò che avevano realizzato, hanno continuato a visitare i loro parenti e amici da Maierà e hanno continuato a parlare il dialetto nelle case e cucinare fusilli al sugo di capra, coltivando i loro giardini e allevando animali come facevano a Maierà. Mia nonna María Lisina era un essere meraviglioso, mi ha insegnato tutto quello che sapeva. Era molto laboriosa e molto fedele alle sue radici ma allo stesso tempo aveva una mentalità avanzata e sapeva adattarsi a un nuovo continente. Rosario ha un fiume impressionante chiamato Paraná e non ha montagne, è piuttosto pianeggiante. Le mancava molto il mare e le montagne di Maierà. Arrivò a Rosario all'età di 19 anni e creò una famiglia con due figli e 3 nipoti. Uno di questi sono io: innamorata di Maierà e della sua gente. Soprattutto, del suo aroma, del suo borgo affascinante e dei suoi tramonti mozzafiato.

Storia di Liliana Pignataro

Il 21 novembre 1927, sulla nave Nazario Sauro, Angelo Pignataro, figlio di Dionisio e Rosangela Perrone, mio nonno paterno, arrivarono al porto di Buenos Aires.
Aveva 24 anni. Nella loro terra natale Maierà, Maddalena Pignataro, figlia di Battista e Rosa Gagliano, e la piccola María Rosángela Pignataro, sua figlia di soli 6 mesi, attendevano il suo ritorno.
Era da poco più di un anno che Angelo e Maddalena si erano sposati nella chiesa di Santa María de Piano, il 29 aprile 1926.
Rimasto orfano di sua madre a 6 anni, si stabilì a Buenos Aires con un obiettivo prioritario: portare moglie e figlia.
Angelo Pignataro e Maddalena Pignataro
Insieme ad altri connazionali, ha lavorato come muratore, nella costruzione del Military College di El Palomar, un'opera di grande portata, che è ancora conservata in ottime condizioni.
Sette anni gli ci vollero per raccogliere i soldi necessari a pagare i biglietti e avere una casa modesta e piccola per accogliere moglie e figlia. Maddalena e la piccola Rosangela arrivarono finalmente a Buenos Aires il 7 ottobre 1935.
Qui sono nati mio zio Carmelo e mio padre Dionisio.
Angelo, tra le altre cose, era un artigiano e un venditore ambulante, produceva spolverini di piume, scope, sedie, cestini di vimini e con una carrozza trainata da cavalli visitava i quartieri di Buenos Aires in modo che i suoi figli potessero studiare e offrire loro un futuro migliore. Era analfabeta ma molto orientato alla memoria e intelligente con i numeri e incoraggiava sempre i suoi figli e nipoti a studiare e progredire.
Non dimenticò mai le sue origini contadine. Nativo della contrada Brase (Vrasi), nella parte inferiore della sua casa a Buenos Aires, aveva una fattoria dove seminò e raccolse tutto. In quella casa, che conoscevo da bambina, c'era una vite, la cui origine era un segmento che aveva portato quando venne a Buenos Aires. Ha detto che era come avere un pò della sua terra e della sua famiglia dall'Italia nella sua casa a Buenos Aires. Lavoratore, onesto, affettuoso, che parlava più in calabrese che in spagnolo.
Sia lui che mia nonna Maddalena ci riempirono di storie su come fosse la loro vita a Maierà, su come avrebbero raccolto legna da ardere o fatto il bucato vicino a Grisolía, o tutto ciò che incontravano camminando per raggiungere il mercato di Diamante. Con queste storie, ci hanno fatto volare con l'immaginazione verso quella terra meravigliosa e ci hanno lasciato una ricchezza culturale di quella terra, la sua terra che è inestimabile ... terra dalla quale non si sono mai separati e con la quale si sono sempre abbracciati con il loro cuore.

Storia di Mabel Gardiol Sollazzo

Ti conosco anche se non ti ho mai vista. Sono Mabel Gardiol Sollazzo, dai miei primi ricordi, il tuo nome appare lì e molto piu ... Il mio bisnonno materno, Francesco Salemme, ha fatto diversi viaggi in Argentina prima di portare parte della sua famiglia in questo paese, Filomena Biondi, sua moglie e una delle sue figlie, Angelica sposata con Giulio Sollazzo,  e i  suoi nipoti Erminia, Adele, Ester, Gioconda e Dionisio. La sua, una storia ripetuta in questa terra , simile a quella di tanti altri immigrati che hanno cercato di riarmarsi dopo la guerra,  con il pensiero  di tornare un giorno nella loro terra natale, lo ha portato a questo punto.
La mia famiglia si stabilì a Santa Isabel, una piccola città,  in cui anche mio bisnonno fu co-fondatore, e Rita, mia madre, nacque lì. Sono riusciti a stabilirsi e ad adattarsi molto bene alla loro nuova vita, erano una famiglia riconosciuta da tutti come molto solidale e laboriosa. Si sono dedicati alle attività rurali e avevano anche un magazzino commerciale generale, lo "shopping" dell'epoca. Il mio bisnonno è diventato 3 volte sindaco del luogo e fa parte dei libri di storia che lo riconoscono come uno degli imprenditori che hanno contribuito a far crescere la regione economicamente. Quando morì, la famiglia si stabilì nella città di Rosario, dove sono nata.
A casa mia si parlava sempre italiano, per me la mia lingua madre, il cibo e i costumi erano i tuoi Maiera! Ho incontrato il tuo bellissimo mare azzurro attraverso le storie delle mie zie che ti hanno amato fino all'ultimo giorno della loro vita senza poterti rivedere. Mi hanno raccontato delle tue strade, delle tue montagne, della tua storia, dei tuoi pasti che fin da piccola ho imparato a godermi e poi a preparare. 
Ti conosco da sempre, attraverso le tue tradizioni e  i costumi di quel sangue appassionato, del far parte di enormi tavoli con molto colore, un sacco di cibo vario, con molte persone intorno a te, sì, tutta la famiglia, i nonni, genitori, zii, cugini…. Per Natale i tuoi piatti tipici, il tuo dialetto e l'amore infinito per ogni luogo della tua geografia che i miei antenati figli del tuo suolo mi hanno trasmesso e io continuo a trasmettere.Mi sono fatta una grande promessa!
Visitarti, fare un giro  e come un grande tributo a loro, che non potrebbero mai vederti più, attraverso i miei occhi mostrare loro come sei oggi, bella e splendente come ti descrivevano, mantenendo le tue radici e sempre in piedi. Mi vedo camminare per le tue strade, ammirare i tuoi paesaggi, percepire i tuoi profumi e sapori, per mano di mio nipote Francesco, al quale spiego quotidianamente che Maiera è in un altro continente, ma è molto vicina perché è dentro i nostri cuori.

Maierá,  sempre  sei stata lì, sempre vicino. Ti saluto, fino a quando ci incontreremo di nuovo! Arrivederci

Pablito Sandolo

sabato 31 marzo 2018

Storia e Arte: la Chiesa Madre.


Maestosa, luminosa e accogliente, la nostra Chiesa Madre è senza dubbio l’elemento di spicco del nostro patrimonio storico, artistico e architettonico.                      
Secondo la tradizione la Chiesa di Santa Maria del Piano fu realizzata da alcuni “Artefici Franzesi”. E’ possibile identificare questi Artigiani Francesi con quegli ingegneri o tecnici di corte che seguivano la corte Angioina ai tempi di Carlo I d’Angiò. Difatti l’origine della Chiesa Matrice risalirebbe proprio a questo periodo, indicativamente alla seconda metà del 1200, ossia dopo che nel 1266 Carlo I d’Angio viene incoronato re di Sicilia. La presenza di questi Artefici è dovuta al fatto che Guglielmo e Roberto Matera, figli dell'allora Barone di Majerà Ruggiero Matera, fossero consiglieri della corte del d’Angiò, e dunque riuscirono a far edificare la Chiesa ed altre “fabbriche” sul territorio di Majerà.
Santa Maria del Piano (1701)
La primitiva struttura doveva presentarsi ben diversa da come la vediamo oggi. Secondo quanto scrive Francesco Antonio Vanni nelle sue Croniche (Memorie della terra di Majerà) la Chiesa doveva essere tutt'uno con il campanile (elemento di pregio della stessa), con entrata (o porta) sulla strada sotto il medesimo campanile. Molto più piccola rispetto ad oggi fu ampliata grazie alla concessione di alcune case da parte della famiglia Matera. Fu dedicata a Santa Maria del Piano e se ne celebrava la festa il 2 luglio. La statua della Vergine, interamente realizzata in legno d’ulivo, risale al 1701: La pesantezza della stessa fu la causa (secondo quanto riferisce il prof. Orazio Campagna in Storia di Majerà) della soppressione della processione e degli stessi festeggiamenti. 
Nel 1534 la Chiesa viene nuovamente rifatta e innalzata per volere di Alfonso di Loria e Beatrice Raimo sua moglie. Questo intervento comportò lo spostamento dell’ingresso, corrispondente a quello attuale, testimoniato, sempre secondo il Vanni, dagli stemmi dei Loria sopra la porta della Chiesa (tre stelle d’oro e azzurre sopra un campo d’oro) e sopra la cappella dell’Assunzione di cui godevano lo Ius patronato, ovvero il diritto di proteggere (mantenere) l’altare. Al di sopra dell’Altare dell’Assunzione fecero inoltre incidere due versi latini: Alphonsus Loria, Raimi Beatrixque Sacellum – Confors me Condit fecit, uterque piè. 1534.  
Il campanile rimase in basso rispetto alla navata. Con questo intervento viene anche realizzata la Sacrestia, abbellita nei pavimenti nel 1582, e la Chiesa fu adornata di stucchi secondo la moda dell’epoca.
Affresco attribuito ad Angelo Galtieri (1725)
Nel 1600 la Chiesa godeva di rendite, soprattutto di decime in grano. Vi erano otto cappelle, alcune delle quali Ius patronati, come ad esempio la cappella dei Loria, l’Annunziata della famiglia Bruni, lo Spirito Santo della famiglia Vanni e S. Lucia della famiglia Forte.  Come accennato in un precedente post, è il 1661 quando la Chiesa Madre fu vittima del saccheggio da parte dei corsari Turchi, provenienti da Biserta, i quali rubarono oggetti sacri in argento e oro, bruciarono gli arredi e distrussero la pietra del Fonte Battesimale.

Assunzione di Maria, Chiesa Madre di Maierà
La Chiesa Madre subì altri rifacimenti nel 1711, quando a spese pubbliche, sotto l’economato di Don Giovanni Bruni, fu rifatto il tetto che minacciava di crollare e successivamente nel 1756, come risulta da un’iscrizione sul portale dell’ingresso (Sig. Antonio Benvenuto Sindaco 1756). Fu durante questi lavori, in particolare quelli del 1711, che si decise di abbellire ulteriormente la nostra chiesa, affidando la realizzazione degli affreschi ad uno dei maestri dell’epoca, ovvero ad Angelo Galtieri di Mormanno di cui si hanno notizie tra il 1716 e il 1739. Il Galtieri realizzò  l’affresco dell’Assunzione di Maria posto al centro della volta della navata presumibilmente intorno al 1725. A testimonianza di ciò, ci vengono in soccorso sia dati cronologici (uno su tutti l’anno di rifacimento del tetto) ma anche elementi stilistici e artistici che rimandano ad Angelo Galtieri. Il volto della Vergine è molto simile, infatti, alla Vergine in Gloria che il maestro realizzò per la chiesa del Suffragio di Mormanno, come anche il gesto delle braccia dispiegate e i movimenti degli abiti di Maria. Da sottolineare, inoltre, che i colori usati (bordeaux per la tunica e blu per il manto) e i lunghi capelli biondi ricadenti in serpentine sulle spalle, richiamano chiaramente la statua di Santa Maria del Piano anch'essa della stessa epoca.

Successive, ma legate comunque all'attività artistica del Galtieri, sono le tele poste ai lati dell’altare maggiore. Entrambe, sia quella dell’Immacolata Concezione che dell’Annunciazione, risalgono al 1804 e sono state realizzate da Genesio Galtieri, figlio del maestro di Mormanno.
Dunque, a metà del 1700 la Chiesa si presentava con soffitto ornato di tavole dipinte, a destra e sinistra della navata si individuavano 6 altari, sotto il titolo di diversi santi e sante, e in fondo il suo altare maggiore con la sua icona dorata ove si conservava il Santissimo. A destra e sinistra dell’altare maggiore altri due altari, il fonte battesimale e il pulpito. Nella sacrestia si conservavano paramenti e utensili. Vi erano oggetti in argento, una croce, incensieri con navicelle e calici, e il campanile presentava 3 campane, due grandi e una piccola.
Annunciazione, Genesio Galtieri - 1804
Immacolata, Genesio Galtieri - 1804



Per ciò che concerne la cripta non ci sono fonti a riguardo. La tradizione vuole che nella cripta corrispondente alla sacrestia, ovvero alle spalle dell’altare maggiore, venissero sepolti sacerdoti o esponenti delle famiglie nobili. Quest’area si presenta come una sala unica con degli scanni in pietra ove appunto venivano posti, in posizione seduta, i defunti. Al di sotto della parte centrale della navata, si presentava invece come un reticolo di piccoli loculi, destinati a nobili del posto, ne testimonia il fatto la lapide della famiglia Vanni non più visibile dopo il recente restauro. Corrispondente all'ingresso della Chiesa, all'inizio della navata dunque, la cripta si presenta come un’area unita e abbastanza spaziosa.

Con questo articolo colgo l'occasione per augurare a tutti una serena Pasqua di Resurrezione :-) 

sabato 27 gennaio 2018

Francesco Alunni Pierucci: 'u cunfinatu!

Fin dall’antichità l’uomo ha sempre temuto di perdere la memoria, di dimenticare le persone, le storie, i sentimenti, cadere nell’oblio. Gli antichi greci, tanto celebravano il culto della memoria, da aver dedicato anche una divinità a questo elemento importante della vita. Mnemosine, la dea della memoria, figlia del Cielo (Urano) e della Terra (Era o Tellure), era colei che permetteva agli uomini di dare i nomi alle cose e alle persone, quindi di ricordarli e tramandarli nel tempo. Mnemosine, tuttavia, camminava di pari passo con sua sorella Lete, la dea dell’oblio, della dimenticanza, che permetteva all’uomo di dimenticare ciò che lo aveva fatto soffrire, ciò che ricordando non gli avrebbe permesso di vivere sereno.
Francesco Alunni Pierucci
Oggi, molto spesso, si è tentati di cedere alla dea Lete, dimenticando facilmente tutto, non solo ciò che ci ha fatto soffrire. Un giorno come questo, il giorno della Memoria, serve proprio a fermarci un attimo, a prendere fiato nelle nostre lunghe e stressanti giornate, per riflettere sul passato per far sì che quanto accaduto non succeda ancora.
 A tal proposito, anche io voglio celebrare questo giorno parlando di un personaggio legato al periodo fascista, legato a Maierà e alla storia, alla memoria, del nostro piccolo paese.

Il ventennio fascista fu un periodo di grande trasformazione per l’Italia, di conquiste territoriali, ma anche di scelte nefaste, decisioni per le quali molte persone, donne, uomini e bambini, hanno pagato delle care conseguenze. Le leggi razziali, emanate nel ’38, hanno portato l’Italia nella scia nazista, una scia di sangue e violenza voluta e perseguita da un uomo, Adolf Hitler, che odiava il diverso solo per essere tale. Vittime delle leggi nazi-fasciste, come sappiamo, non furono solo gli ebrei, ma anche gli zingari, i portatori di handicap, gli omosessuali, e gli avversari politici, in particolare i comunisti. Gli stessi campi di concentramento non ospitarono solo ebrei, ma anche i soggetti su menzionati. Esempio, proprio a pochi chilometri da noi, è il campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, aperto nel 1940, che non accolse mai ebrei ma solo prigionieri politici.
Proprio in questa scia si inserisce Maierà. Il nostro paese, durante il ventennio, fu sede di confino di prigionieri politici del regime. Venivano scelte quali località di confino soprattutto paesi piccoli, dove era difficile arrivare per mancanza di strade e collegamenti, paesi lontani dai centri di potere politico e culturale.
Non so dire di preciso quanti confinati furono destinati a scontare la loro pena a Maierà; dalle mie ricerche sino ad ora condotte posso menzionare un certo De Maio Pietro, comunista di Palmi, che tra il 1934 e il 1939 fu mandato al confino a Maierà, e senza dubbio una personalità di spicco quale fu Francesco Alunni Pierucci.

Francesco Alunni Pierucci nato ad Umbertide (PG) il 4 giugno 1902, è stato un sindacalista, un antifascista, un uomo politico, un senatore della Repubblica Italiana, un sindaco…e un confinato. Già dall’età di 18 anni iniziò ad occuparsi dei lavoratori umbri, gli viene infatti affidato l’incarico di dirigere la Camera del lavoro di Umbertide. Inizia ad appassionarsi da subito anche di politica, è uno dei fondatori della sezione locale del partito socialista, ma con l’avvento del fascismo iniziano i primi problemi. Nel 1922 decide di emigrare a Nizza, dove diviene il coordinatore di un gruppo di antifascisti di cui faceva parte anche il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini. Dopo varie vicissitudini, nel 1941 la gendarmeria francese lo consegna alla polizia italiana, che riportatolo in patria lo destina a varie prigioni tra il 1941 e il 1942.
Nel gennaio del 1942 viene condannato ad un anno di confino a Maierà (fino al 25 luglio 1943), per le sue attività antifasciste in Italia e all’estero.
Maierà, estate 1962. Da destra: Ugo Cristofaro,
Peppino Consiglio, Francesco Alunni Pierucci,
Ettore Biondi
A Maierà gli fu assegnato come alloggio una casa nel centro storico, in via Pietra, oggi di proprietà di Cinzia Forte e Aldo Crusco. Non aveva da mangiare, non viveva nell’agiatezza naturalmente, ma ben presto iniziò a conquistare le simpatie dei Majeraioti. Ad alcuni insegnò a leggere e a scrivere, ad altri pitturò le case, ad altri ancora riuscì a portare la luce all’interno delle abitazioni, fino ad allora presenti solo nelle strade. Riuscì addirittura a conquistare la stima del parroco dell’epoca, Don Francesco Vivona, grazie soprattutto all’episodio del presepe, scritto e raccontato nel libro “Francesco Pierucci” gentilmente regalatomi dalla moglie, la sig.ra Mirella Alloisio (ex partigiana e oggi Presidente onoraria della Sezioni ANPI di Perugia).
Nel Natale del 1942 Maierà doveva prepararsi ad accogliere la visita del Vescovo; per fare bella figura, il parroco chiese al confinato di dargli una mano costruendo un bel presepe per la Chiesa Madre. 
Francesco Pierucci all’inizio fu un po’ restio, non essendo pratico di cose religiose, ma si lasciò convincere dalla ricompensa in cibarie promessagli dal sacerdote. Si mise all’opera, creò i personaggi del presepe, e si ingegnò per realizzare dei movimenti di acqua e di luce che contribuirono a far diventare quel presepe un capolavoro. La notte di Natale, mentre era solo nella casa di via Pietra, un gruppo di paesani andò a chiamarlo per portarlo in chiesa, dove tutta la comunità, insieme al Parroco, lo accolse festosamente e lo ringraziò per il presepe.
Nell’estate del 1962, a vent’anni dal confino, Francesco Alunni Pierucci tornò a Maierà, questa volta in compagnia di sua moglie e di suo figlio Donatello di 8 anni. Subito dopo il loro arrivo si sparse la voce che il confinato era tornato, tutti andarono a salutarlo, ricordando quell’anno trascorso insieme durante la guerra.  

Ho voluto celebrare questo giorno della Memoria ricordando un personaggio che ha lasciato traccia nella storia di Maierà e della Repubblica, un episodio, una pagina di storia che può ancora arricchirsi di particolari e di aneddoti.

Ringrazio la sig.ra Mirella Alloisio per la disponibilità nell’inviarmi tutto il materiale in suo possesso, ringrazio il sig. Donatello Alunni Pierucci, speranzoso di mantenere l’impegno preso, ovvero di organizzare una giornata celebrativa a Maierà in memoria di suo padre, e colgo l’occasione di chiedere a chiunque abbia racconti, aneddoti, documenti, riguardanti questo personaggio della nostra storia recente, di contattarmi, per ricordare e raccontare alle nuove generazione questa bella pagina del nostro passato.
Pablito Sandolo

venerdì 3 novembre 2017

Alfonsus di Loria me fieri fecit 1574 (seconda parte)

Come anticipato nel precedente post, con Vittoria di Loria, dopo un secolo e mezzo circa,  si chiude il dominio della dinastia Loria (o Lauria) a Maierà. Vittoria è difatti l’ultima baronessa della famiglia ma, contemporaneamente, è con lei che inizia un’altra importante pagina della storia di Maierà: è con lei che la famiglia Carafa entra nella storia del nostro paese.
Stemma Carafa della Spina nella
Chiesa del cimitero di Maierà
La famiglia Carafa è una delle famiglie nobili più importanti di tutto il regno di Napoli, e in quel periodo (siamo nella seconda metà del 1500) una delle più influenti sia a livello aristocratico che ecclesiastico. Alla famiglia Carafa appartennero numerosi e valorosi guerrieri, ben sedici Cardinali, molti Vescovi e persino un pontefice, è il caso di Papa Paolo IV al secolo Gian Pietro Carafa pontefice di Roma dal 1555 fino alla morte avvenuta il 18 agosto del 1559.
Dal ramo principale della famiglia Carafa nel corso dei secoli si distinsero vari rami, tuttavia tra essi due sono passati alla storia, per eventi e personaggi che li hanno visti protagonisti: i rami Carafa della spina e Carafa della stadera. La leggenda vuole che due cavalieri della famiglia Carafa parteciparono ad una giostra (i cosiddetti giochi medievali) che si teneva a Napoli presso la chiesa di San Giovanni a Carbonara. Il re Carlo II d’Angiò, vedendo che i due avevano lo stesso stemma, ovvero uno scudo con tre fasce argento su fondo rosso, pensò bene di chiedere agli stessi di differenziarsi durante i giochi. Uno dei due prodi allora prese una spina e la conficcò nello scudo. Da tale episodio nacque la dinastia Carafa della Spina. L’altro ramo, invece, nello stemma o in gergo nobiliare, nella sua arma, presenta all’esterno dello scudo con tre fasce argento su sfondo rosso, una Stadera cioè una bilancia.
Tornando a Maierà, la nostra storia è strettamente legata al ramo dei Carafa della Spina. Vittoria di Loria sposa Lelio Carafa della spina e dalla loro unione vedono la luce due fanciulle, Giulia e Maria. Ho già detto, amici lettori, che morto Lelio, Vittoria si ritirò tra le mura del castello a vivere come una suora, furono i diverbi con il padre Alfonso III a spingerla ad uscire dal castello di Maierà e sposare il gentile Fabio Bologna. Vittoria muore il 22 settembre 1598 lasciando il castello nelle mani delle sue figlie e in particolare della primogenita Giulia.
Palazzo Carafa della Spina fatto costruire
da Fabrizio Carafa marito di Giulia Carafa
(Napoli ,via San Domenico Maggiore)
Di Giulia Carafa, nata nel 1587, sappiamo poco, anche se le sue vicissitudini, la lapide marmorea che la ricorda nella chiesa del nostro cimitero, hanno fatto fantasticare e sognare un po’ tutti sulla vita della principessa (titolo non esatto) di Maierà. Giulia a soli 14 anni, il 22 luglio del 1601, sposa suo zio Fabrizio Carafa della Spina, con dispensa apostolica, ovvero con una lettera del Papa che autorizzava le nozze tra consanguinei. Altri tempi, quando l’amore passava in secondo piano, ciò che contava era il titolo, il blasone e il potere. Fabrizio Carafa della Spina del resto era un personaggio molto potente per quell'epoca, conte di Policastro e di Roccella (jonica), duca di Forlì, patrizio Napoletano, governava su un territorio molto vasto. Il suo potere, la volontà dei nobili di imparentarsi con gente dello stesso calibro,o forse il fatto che Giulia fosse rimasta orfana,  portarono Giulia a sposare suo zio. Dalla loro unione nacquero 5 figli, Gian Federico Alfonso (nato il 9 giugno del 1602) morto però in fasce, Francesco, Giuseppe (30/10/1603), Giovanni e in fine Laura (marzo 1608).
Fu forse quest’ultimo parto a debilitare irrimediabilmente il fisico della giovane contessa di Majerà, che a soli 21 anni nel 1608 si spense tra le mura del castello circondata dall’affetto dei suoi figli e di suo marito. Questo è ciò che leggiamo nella lapide presente nella chiesa del cimitero la quale recita: D.nae Juliae Carafae Polycastri Comitissae Polycastrensis Domus jam Collabentis instauratrici conjugi amatissimae. D. n Fabritus Carafa unico vitae suae oblectamento immaturé viduatus. Objit MDCVIII. Etatis suae XXI.
Fabrizio, pur amando la nostra Giulia, non perse tempo e poco dopo il 30 aprile 1609 prese in moglie la nobildonna Eleonora Santacroce. (Qualche anno dopo nel 1614 Fabrizio si sposa per la terza volta con Francesca Coqui).

Morto Fabrizio Carafa (marzo 1630), il titolo di Conte di Majerà passa a suo figlio primogenito, nato dalle nozze con Giulia, ovvero Francesco Carafa della Spina.  Egli, viste le difficoltà economiche della famiglia e il periodo poco favorevole per la nobiltà Napoletana, decise di disfarsi del territorio di Majerà vendendo lo stesso al nobile di Buonvicino Don Marc’Aurelio Perrone (6 aprile 1638). Ma pochi anni dopo, nel 1647, Don Fabrizio junior (figlio di Francesco) torna nuovamente in possesso della terra di Majerà.
Fu questa un'epoca molto complicata e difficoltosa per il popolo di Maierà, ma in generale per tutto il Regno di Napoli. Era il periodo della peste che imperversava in tutta Italia, accanto ad un'altra pestilenza, questa volta umana però, cioè le scorribande saracene che sbarcando sulle coste saccheggiavano, depredavano e distruggevano ciò che incontravano.
Se la peste non arrecò danni al nostro paese, se non per un lieve spopolamento, in quanto molti abitanti decisero di andare via in cerca di miglior fortuna nelle Terre vicine, diverso fu il discorso per gli attacchi saraceni: è il 1661 quando i corsari Turchi, provenienti da Biserta una località vicino Tunisi, saccheggiano la Chiesa Madre, rubano oggetti sacri in argento e oro, e quanto c'era di prezioso, bruciano arredi e distruggono finanche la pietra del Fonte Battesimale.

Anni complicati anche per la dinastia dei Carafa. Il castello nel 1647 fu teatro di un vero delitto d'onore. Gennajo Carafa fratello di Fabrizio Carafa Conte di Majerà, geloso del fratello e dopo varie diatribe con lo stesso, fomentate, secondo lui, dal loro istitutore, un certo Antonico di Luca, una sera di quel 1647 si presentò nel castello di Majerà con sei sicari e fece uccidere Antonico per poi fuggire a Napoli.
Tuttavia tra diatribe, conflitti interni, pestilenze e saccheggi, il feudo di Majerà resterà nelle mani della famiglia Carafa della Spina fino ai primi decenni del 1700.

(Per le foto scattate a Napoli ringrazio Chiara Cerrone. Preziosa la sua collaborazione e utilissime le ricerche effettuate nei luoghi da me indicati. Grazie.)

Lapide marmorea commemorativa della Contessa Giulia Carafa della Spina,
 visibile nella chiesa del Cimitero di Maierà. 

Spegni torcia, dettaglio del portale di Palazzo Carafa della Spina,
 Napoli via San Domenico Maggiore.

Cappella Carafa della Spina nella Chiesa di San Domenico Maggiore (Napoli)


Lapide marmorea posta nella cappella dei Carafa della Spina in San Domenico Maggiore (Napoli)
Epitaffio dedicato al I Duca di Maierà Francesco Carafa della Spina (Duca dal 1666 al 1689)




giovedì 21 settembre 2017

Alfonsus di Loria me fieri fecit 1574 (prima parte)

Un amico, qualche giorno fa, fece questa domanda a me e agli altri presenti: Maierà potrebbe essere la location ideale per una reunion dei fans de Il Trono di spade? Tra scetticismo, scarsa familiarità con la serie televisiva, il mio amico non ebbe una risposta sufficiente alla sua idea e il discorso virò su tematiche meno utopistiche. Tuttavia, pensandoci adesso, dopo qualche giorno, l’idea non sarebbe così malsana. Maierà del resto ha vissuto l’epoca delle spade, dei coltelli, dei troni e dei castelli. Nobili uomini e nobil donne si sono susseguiti nei secoli sul trono, o meglio, sullo scranno del castello di Majerà; amori, passioni, cospirazioni e intrighi si sono celati tra le sue mura. Personaggi e storie che fanno volare la mente e l’immaginazione ad epoche lontane quando baroni dal sangue blu si contendevano il nostro paese. Il castello di Majerà da tutti conosciuto come il palazzo ducale, è uno dei luoghi più affascinanti e importanti del nostro patrimonio storico. Facendo un breve excursus storico, tuttavia, bisogna partire dal principio, o meglio, dal primo castello di Maierà, quello edificato intorno all’anno mille nei pressi della porta grande del paese, ovvero la Porta Terra o Porta della Terra. La prima costruzione a difesa dei terrazzani, cioè dei cittadini, era un tutt’uno con la porta del paese e la Guardiola, la torre di avvistamento posta sopra la Porta stessa. (apro una parentesi, non si può non ricordare l’ultimo torrigiano della guardiola, l’ultimo abitante di vico Guardiola, cioè Rinaldo Valente, la simpatia fatta persona).
Successivamente, intorno alla prima metà del XVI° secolo viene costruito l’odierno Palazzo Ducale, immenso, imponente, ricco di affreschi, con le sue scalinate in pietra e le incisioni poste li a narrarci la sua storia, la stanza della cisterna utile a raccogliere l’acqua piovana, le stalle, e il passaggio preferenziale alla Chiesa Madre.  Storia, quella del Castello di Maierà strettamente collegata a quella della famiglia Loria o Lauria. Fu proprio il barone Alfonso di Loria, ai primi del ‘500 a volere la costruzione del castello e il rifacimento della Chiesa Madre. Ma, spulciando nei testi che narrano la nostra storia, sorge spontanea una domanda, di quale Alfonso stiamo parlando? Si, perché nella storia della dinastia dei Loria il nome Alfonso ricorre spesse volte.
Partiamo col dire che l’intreccio Maierà – famiglia di Loria inizia nel 1420 quando risulta feudatario della Terra di Majerà un certo Zardullo di Loria. Da lui arriviamo al primo Alfonso di Loria che nel 1464 ottiene in dono Majerà dal fratello Ruggiero di Loria. E’ nel 1525 che la Terra risulta intestata ad Alfonso II di Loria , colui che come detto fece costruire il castello e abbellire la Chiesa Madre. E’ lui l’Alfonsus inciso nello stemma che campeggia sul cancello del palazzo, accanto ad un altro nome, Beatrix, ovvero Beatrice Raimo, sua moglie.
Nel 1549 risulta possessore di Majerà Luigi di Loria, figlio di Alfonso, e padre di Alfonso III di Loria (detto anche Alfonsetto) che lascerà la sua firma sulla storia di Maierà. Nel 1552 questo Alfonso sposa Giulia di Bernaudo di Cosenza  e dal loro matrimonio nacquero due figlie Vittoria e Beatrice. A lui è riferita l’incisione visibile sulla scalinata esterna del palazzo “Alfonsus di Loria me fieri fecit 1574 ”, in quanto anche lui, come suo nonno, fece riparare, ingrandire e abbellire il castello. Morì il 2 dicembre del 1597 e le sue spoglie furono collocate nella Chiesa di Santa Maria del Casale (la chiesa del Cimitero).
Affascinante, al pari della protagonista di un fantasy come il Trono di Spade, la storia dell’ultima Baronessa di Majerà appartenente alla famiglia Loria. Vittoria di Loria, primogenita ed erede di Alfonso III, fu una donna tenace, caparbia, ma alla fine sottomessa al rigore e al costume dell’epoca come tutte le protagoniste de romanzi  o dei film ivi ambientati. Vittoria andò in sposa a Lelio Carafa conte di Policastro, e dalla loro unione videro la luce due bambine Giulia e Maria. Rimasta precocemente vedova fu molto rattristata dalla perdita del marito tanto da ritirarsi in un’ala del castello di Majerà e intraprendere una vita monastica secondo la regola domenicana.
Dopo numerosi diverbi con i genitori che non accettavano questo suo atteggiamento, l’11 gennaio 1597 a Napoli sposa il nobile Fabio Bologna, che le dona la possibilità di divenire per la terza volta madre di una bambina, cui viene dato il nome Olimpia, il 4 settembre 1598.
Dopo pochi giorni però, il 22 settembre 1598, Vittoria muore. Durante le ultime ore di vita il castello fu trafugato, mobili e biancheria furono gettati dalle finestre, ma successivamente restituite per paura della scomunica emanata dagli eredi. Una vita quella di Vittoria fatta di rinunce, sofferenze, amori anche non voluti. Destino, storia, che si ripete con sua figlia, la contessa Giulia Carafa, andata in sposa a suo zio Fabrizio Carafa (ma di Giulia vi parlerò un’altra volta).

Donne, uomini, bambine, popolani, storie e vite intorno al castello di Maierà. Prima di salutarvi voglio ricordare un altro episodio riguardante la vita del castello. Siamo nel 1690, la protagonista è Donna Maria de Ponte, duchessa di Majerà  e moglie del duca Francesco Carafa. Questa, soffrendo di una forma avanzata di ipocondria, in una gelida notte di gennaio si getta nel vuoto da una finestra del castello. Il Vanni ci indica anche il punto preciso (per quell’epoca), cioè dalla loggia interna che veniva definita dagli abitanti, loggia delle femmine. Per fortuna la nobil donna non subì danni, probabilmente si gridò al miracolo, tanto si intuisce dalle parole del Vanni che testualmente dice: “ e benché s’avesse dovuto fracassare in pezzi, pure si trovò sana, ed illesa, solamente tocca in pochissime contusioni esterne”. 
 To be continued……

La memoria è tesoro e custode di tutte le cose. (Cicerone)

sabato 20 maggio 2017

La Chiesa di San Giacomo


Maierà, ore 5:40

Cari amici, è da un pò di tempo che non scrivo, il tempo vola, le giornate passano senza accorgersene, e tra le tante cose da fare, qualcuna poi resta solo un’idea, un progetto. Ma per “fortuna” ci sono notti come queste, notti durante le quali non riesci a dormire perché il caffè gentilmente offertoti da tua cognata non ti aiuta ad adagiarti tra le braccia di Morfeo. Allora capisci che è il momento giusto per riprendere un discorso lasciato in sospeso, per dedicarti a quel che stai pensando da tempo.
In questo mio post voglio parlarvi di uno dei monumenti più antichi di Maierà: la Chiesa di San Giacomo.   Ad alcuni sembrerà strano sentire questo nome, tutti conosciamo la  Chiesa Madre, dedicata a Santa Maria del Piano, la cappella della Madonna del Carmine e la chiesa di San Pietro, ma nessuno di noi è mai andato a Messa a San Giacomo. Se invece di chiesa iniziassi a parlare dello “scarazzo” di Scifò (la buonanima di Angelo Ritondale), allora la cosa inizierebbe a farsi un po’ più chiara. Lo scarazzo, ovvero il ricovero per le capre o le pecore, posto vicino al cimitero, infatti è proprio la Chiesa in questione.
Ciò che vi resta, ciò che vediamo, rappresenta uno dei monumenti più antichi presenti sul nostro territorio. Stiamo parlando dell’VIII secolo d.C., uno dei periodi più floridi per l’area alto tirrenica e soprattutto più vivace per ciò che riguarda il cristianesimo meridionale. Numerosi gruppi di monaci orientali costretti all’esodo da Bisanzio a causa delle lotte iconoclaste seguite all’editto di Leone III l’Isaurico (717-740) e continuate dai suoi successori, cercarono rifugio nel sud Italia. In Calabria i monaci italo-greci apparvero fin dal VI-VII sec. d.C, in seguito all’invasione araba della Siria e della Palestina. Una seconda ondata si ebbe nell’VIII secolo proprio a causa dell’iconoclastia. L’ultima immigrazione si ebbe dalla Sicilia tra il IX e il X secolo, in seguito all’occupazione araba dell’isola, la quale determinò una concentrazione di monaci  nella stessa Calabria, in Puglia e in Basilicata, che sotto la guida di San Nilo da Rossano raggiunsero una perfetta organizzazione in comunità. Fu così che prese il via l’imponente fenomeno del monachesimo calabro-greco chiamato anche Basiliano in onore del suo fondatore San Basilio Magno (+ 379).
Questi monaci amavano vivere in luoghi poco abitati, nelle vicinanze dei boschi, e molto spesso, nei pressi di grotte e caverne. I monaci Basiliani furono molto importanti per tutta la regione e soprattutto per questa parte della Calabria: spinsero le popolazioni a procurarsi maggiori risorse dalla terra, effettuarono dei dissodamenti, bonificarono molte terre, edificarono Chiese, piccoli cenobi, aiutarono gli abitanti nell’apprendimento delle lettere e diffusero l’allevamento del baco da seta. Majerà godeva di una posizione ideale per lo stile di vita basiliano, ma soprattutto era vicina ad una zona molto influente e molto importante per ciò che riguarda il monachesimo calabro-greco, ovvero l’Eparchia del Mercoùrion , comprendente i centri della Valle del fiume Lao. Inoltre, a conferma della ricchezza e della vivacità di questo movimento religioso in questo lembo di Calabria, troviamo la figura di San Ciriaco da Buonvicino, monaco Basiliano nato intorno al X secolo, che attirò le attenzioni di molti in quel periodo, data la sua fama di santità già in vita.

Tornando a Majerà e alla nostra chiesa di San Giacomo, essa, costruita su di un gruppo di grotte scavate nella roccia che servivano da riparo ai monaci, al suo interno ci mostra la nicchia dove veniva riposta l’icona del santo e una cavità ricavata nella parete laterale dove venivano conservati gli oggetti sacri. A sud di essa, secondo quanto tramandatoci dal nostro Francesco Antonio Vanni, vi era anche un’altra chiesa dedicata a San Sebastiano, della quale però non rinveniamo alcuna traccia. Nel 1750 secondo quanto narrato nelle Cronache di Majerà, era possibile visitare entrambe le chiese, nonostante risultassero già profanate. Tuttavia bisogna ricordare che anche le chiese di San Pietro e di San Nicola sono di origini basiliane o calabro-greche.
La Chiesa di San Pietro, difatti, ricadeva nel territorio dell’Abbazia di San Pietro a Carbonara, un tempo importantissima abbazia basiliana. Non si può stabilire la datazione precisa, ma da quanto scritto dal Vanni e ulteriormente approfondito dal Campagna, sembra certo che in passato questa piccola chiesa doveva essere una delle più fiorenti abbazie basiliane dell’area del Mercoùrion. Di San Pietro dei Marcani, infatti, si hanno notizie e aneddoti sin dal X secolo; intorno alla metà del 1200, sotto l’egemonia Normanna mutò il suo nome in San Pietro a Carbonara, e amministrava una vasta platea comprendente gran parte del territorio di Majerà.
Ruderi San Nicola
La chiesetta di San Nicola, invece, situata alle spalle della Chiesa Madre, doveva essere un asceterio affiliato al monastero di rito greco di Santa Maria del Casale -  poi di San Domenico – (chiesa del Cimitero). Della chiesetta di San Nicola oggi è possibile ammirare solo le pareti esterne, in quanto profanata e destinata a diverso utilizzo, ma fino agli anni 30 del secolo scorso si potevano notare gli affreschi sulle pareti perimetrali e su quelle della piccola abside.

In conclusione una proposta, o meglio, un’idea da proporre e da discutere insieme: e se illuminassimo la chiesetta di San Giacomo? Mi spiego meglio….se dessimo rilievo a questo importante monumento istallando dei fari, tanto da illuminare la chiesa così da farla vedere dalla statale SS 18?  Ai posteri l’ardua sentenza ;-)